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Poesia | Cronicismi di Antonio Vittorio Guarino
Antonio Vittorio Guarino, Cronicismi, Oedipus
la leggerezza promessa
Deittici, e qualche raggio sul nostro cappotto, il freddo apparso nelle tasche, le monete
che rimbalzano come chiavi luminose
per aprirsi la possibilità di un sorso, al bar, di caffè.
“Vorrei quello”, per te e per me, un cielo
diviso a metà, ma quel che vedo è meno di
un quarto, sul quadrante dove il cerchio
si compie e la faccia riflette un’espressione demente.
Oggi la situazione è assente, dovremmo saperlo
e farci le ossa per la carne molle, in silenzio,
delle ostie nascoste sotto la lingua, per l’inverno;
una scorta di senso per gli anni folli, racimolata
con le mance, messa in piedi come quei bambini
poliomielitici d’inizio secolo, su stampelle e ferri
rumorosi, arrugginiti.
“So di un uomo che ha fatto a pezzi un serpente
con un coltellino svizzero”, dici. “Era
piccolo, l’uomo, era solo, e doveva sopravvivere”
“Che gli è accaduto, poi?”
“Si è ucciso con gli antidolorifici”
“Il serpente doveva essere la sua vita”.
Per quanto valga la pena, e nessuno lo sa
da principio; per quanto ancora mi sieda
su quel gradino; per quanto il padre ti conceda
l’aiuto differito nel figlio, e le foglie si bagnino
al mattino, e il vento faccia il suo giro – ma
nessuno sa dove va e da dove proviene –, lo spirito
cede, appesantito, e non c’è verso che lo risollevi;
aspetteremo dei mesi, forse, ad un passo dal fingerci morti...
“La leggerezza promessa... ne sono certo, adesso!”
***
qui nessuno è presente
Una mano in prossimità del bicchiere, mezzo pieno,
mezzo vuoto; al tavolo, la luce che rade la superficie
di truciolato, la luce che viene da lontano, rifratta,
attraverso la finestra, il grande occhio
del palazzo.
L’altro, dall’altra parte, che è la sua stessa, lascia
pendere il braccio – la gru come una croce monca
ricorda che la salvezza è imperfetta – spezza
la compostezza della figura e cede su di un lato,
come Cristo nella deposizione; il corpo è sbilanciato,
armonioso quanto lo straccio appeso all’uncino
conficcato tra le piastrelle sulla parete. Le sedie
ossequiose, dove le bambine si accomodavano,
le bambine con le gambe chiuse, sempre chiuse,
le sedie, così compite nella posa di chi segue il dettato,
attorniano il mondo, il tempo con gli schienali
rivolti all’orologio o al mobilio esausto del cosmo;
silente l’acqua sgorga lenta dal tubo rotto – gli occhi
in camera non vedono che le coperte
riverse a mo’ di corpo, ammasso di stoffe
e cotone di cuscini che fuoriesce dai bordi del letto,
libri sparsi a terra tra una scarpa e l’altra titoli neri
che si azzuffano nella lotta fino al comporsi di un senso
che sfugge di primo acchito. La notte è stata
lunga, ma non quanto il mattino, senza parlare delle urla
che risuonano ininterrotte dal secondo piano, sulla
testa (o nella). Dalla terra spuntano monconi, rami
e resti di ombrelli – stecche d’alluminio. I quadri
si guardano dal redarguire nella stanza lo sguardo
di chi non passa.
Nessuno torna. La verità
è che nessuno ritorna in questa casa.
Qui nessuno è presente.
***
Fede
Ti preparo il pasto,ogni giorno sveglio
il latte e lo verso nel bicchiere che metto
davanti at e, il tuo posto,me,
che ho la gola seccata dalle domande
e un paio di occhi
ricolmi di stoviglie,
fazzoletti a strappo al bordo del tavolo,
briciole di pane affettato e burro giallo;
due occhi,dicevo,concavi come lo schienale
della sedia dove ogni giorno
aspetto che tu ti sieda.