
Poesia | Testi di Antonio Ventura
* Ho lasciato la mia sposa
libera di correre nei prati
nel vento si è perduta
e uno scroscio di pioggia me l’ha rapita
e fecondata
è caduta sulle pietre tra i fiori
e anche l’erba notturna e i fiori affamati
l’hanno posseduta e fecondata
è tornata a me
con le labbra sporche di miele
le vesti lacerate dai fiori
è tornata piangendo
è tornata ridendo.
*
Sono nato in un orto
tra i palazzi,
quando i pazzi grondavano sangue
e la luna passeggiava tra i sonnambuli.
Gli uomini mi regalarono un cappello di pirata
e una pistola ad acqua,
io mi nascosi con il cane nella pioggia.
Quando fui ragazzo i giovani stavano morendo
i grattacieli crescevano.
Ho comprato il fuoco
alle pompe di benzina
mangiato il pesce per le strade.
Cresciuto in un mazzo di fiori
mio padre mi portava nelle tasche
le sue mani odoravano di tabacco.
Quando costruii il mio regno
Samassamukin era morto
il sole funzionava a gettoni.
Ipotizzai la distruzione, amai la vita per credenza;
sposai una donna che era un uomo
conobbi i cacciatori di neutroni
e il prete mi sorrise come un venditore.
E quando fui mezzo distrutto,
raccolsi l’altra metà in cielo,
Gianandrea Doria inchiodato alle mie lacrime
Lorenzo de Medici alle mie costole.
Qualcuno mi scambiò per santo.
Ma a tutti dico che la mia casa non è la casa del Signore,
non è fatta di foglie e di vento,
ho dimenticato il giorno della nascita,
le mie radici sono acqua con tuono,
la mia stirpe non è mai nata,
il mio luogo è un non luogo.
Madre mia, che mi cullasti nell’orto fra le tombe
io non provengo dalla terra,
non mi hanno trovato lungo il fiume,
o in una grotta d’argilla,
io non rispolvero l’origine di Adamo.
E adesso che tutto è disfatto finalmente
adesso che tutto è come prima,
com’era al tempo dell’origine, al tempo dell’ignoto,
le anime fioriscono dai rimasugli.
Dimenticate i suppellettili e le tombe
l’acqua ha incontrato il fulmine.
*
Mi ricordo il sole del paese dei campi e del cartello
con l’uomo che sorride alla grande coccinella,
dove mio nonno preparava le torte mio nonno
l’avvitatore di bulloni, e la via dei pannelli solari
dove i simpatici elettroni festeggiano il raccolto.
Mi spolverarono alle pompe di benzina
bambino del sole
e defecai il sole in un cespuglio.
A diciassette anni mi rivestirono i prati
e mi nutrii con le api tra i fiori,
gli uomini ridevano sulle trebbiatrici,
la figura dell’atomo sui loro cappelli,
corpo di cane in cuore di ragazzo io fuggivo da loro
fuggivo dalle trebbiatrici.
E verso le città mangiai erba e coccinelle
e vidi un aereo cadere
e mi fermai sulle insegne dei parchi acquatici.
Nella città mi accolsero i cestini festosi
i fiori gioiosi dalla spazzatura;
le folle del sole mi facevano ridere
e risi così tanto che mi addormentai su una ruota.
Lontano nel vento il canto delle trebbiatrici.
Addio agli uomini che imballano la spiga
addio alla coccinella del cartello e ai loro sorrisi,
ora sono un uomo in abito di petrolio
e con i miei amici e con i miei colleghi
parliamo di cose vere e importanti, e facciamo crescere
le grandi città che comprano i campi, e anche noi abbiamo
la figura dell’atomo sulle nostre camicie.
* Dove giocavo d’estate
gli alberi passeggiavano sulla luce,
mio padre leggeva, pensava, dormiva,
il seme, nella bocca dei pesci,
era divertente e inquietante
come un occhio di libellula,
mi stendevo sulla ghiaia delle strade
polpo flagellato dal sole,
visitavo il tasso e la biscia
nei loro regni di luce,
in agosto le loro case
cantavano il cielo,
la mia radice conteneva il fuoco
della danza maestosa.
*
Noi ci arrampichiamo sui
pensieri migliori
perché aneliamo
alla più vasta guarigione,
nel cadavere del cielo il nostro seme
sta bruciando;
infinita tristezza.
La genialità del mare e la sua piuma di neve,
mi ricordo, dei cavalli delle onde,
avevo semi nei capelli,
la spuma che mi usciva dalla testa
era il delirio del sole.
Avanti coi vostri ultimi miti
tutto quanto è sconfitto.