Poesia I Sulla Produzione di Mario Famularo
Aggiornato il: 2 set 2020

© Mario Famularo
Con Favēte Linguis (Ladolfi, 2019) Mario Famularo continua la sua esplorazione del vuoto già chiamata in causa nell’opera precedente, L’Incoscienza del Letargo (Oèdipus, 2018). L’apertura della silloge più recente parte direttamente in quinta, senza scalare marce, denudando “inganni che sovraccaricano la nostra intimità”, esaminando contagi e contaminazioni, e descrivendo una certa radioattività dell’occorrenza, delle consuetudini, dei convenevoli che sanguinano per inghiottirci, smuoverci e salutarci (non necessariamente in questo ordine).
A testimoniare una sottile continuazione del lavoro precedente, un fil rouge infermabile, proveniente da un gomitolo che rotola giù dalla gradinata di uno stadio enorme o dalla vetta dell’Everest (giusto per dare un senso alle grandezze), è la prima parte della raccolta, intitolata appunto Dopo l’incoscienza. Da qui, si dipana un “punteggiare qualche frase tra i silenzi”, una carrellata di “innocue convenzioni”, la consuetudine dei “come stai, cosa hai fatto”. Essere al mondo non è respirare o esistere, restare vivi, è più un essere inconsapevoli testimoni del vuoto che esiste nonostante tutto, una certa letargia che ci rende ubriachi ed incoscienti. È una sorta di coscienza collettiva dell’inevitabilità degli eventi; qualcosa di cui non siamo consapevoli; qualcosa che esiste indipendentemente da noi. Nel nostro piccolo ne siamo misere comparse, attori secondari di una sceneggiatura ironica, a tratti nichilista ed indubbiamente minimalista; aspetti che compaiono anche nella scelta stilistica dell’assenza di maiuscole e di una punteggiatura scarna proprio per togliere anche dalla scrittura ciò che non è essenziale.
È una poetica che parla di cose che si rompono, che vanno in frantumi, cadute libere, la dolcezza di un “nettare dell’imperfezione che conserva le fratture”. Solo dai pezzi, dai frammenti, è possibile ricostruire. Il progetto di riassemblamento è però minacciato dall’“ubriacatura d’incoscienza che può causare naufragi”, può condurre al rischio di precipitare, spezzarsi ulteriormente. Famularo mette in tavola i tasselli per creare un mosaico dell’esistenza, uno stare al mondo rarefatto, confuso, imperturbabile, terribile, illuminato ed ombreggiato allo stesso momento da un pendolo che oscilla tra lo svuotarsi ed il riempirsi. In questa sconfinata “epidermide dell’esserci” accadono “resoconti di naufragi”, biografie del nulla e si aprono ferite che spurgano perdite, lutti, cancri e cure. Il ciclo della vita è accompagnato da immagini che fotografano anche il ciclo delle stagioni, gli stadi dei frutti: nascita, crescita, maturazione, fermentazione, decomposizione. Cadere dall’albero è pericoloso, sarebbe un andare in pezzi nuovamente, ma si può poco contro le regole della natura, le leggi del fato, perché tanto la dichiarazione finale non solo permane chiara e limpida “la terrà andrà in frantumi”, ma è anche seguita da uno spietato “fortunatamente”.
Eppure non è disperazione che evapora dalle pagine di questa raccolta. Ci troviamo di fronte ad una sfida contro il tempo, ad una presa di coscienza, una conquista di incoscienza, uno stare in punta di piedi ad osservare vasi schiantarsi, frammenti esplodere, consuetudini disintegrarsi, ma dalle crepe è possibile intravedere quel che rimane prima e dopo, l’essenzialità primordiale, una specie di invito minimalista a tenere solo quello che davvero ci serve, buttare tutto il resto.
I versi di Famularo sono un po’ come un pugno allo stomaco. A conclusione di ogni pezzo, sembra che dopo il pugno sia il turno di garze e disinfettante ma invece arrivano altri colpi (stavolta alla testa) prima che il pugile a terra possa medicarsi. Knock-out.
Sono poesie che ci colpiscono come fossimo una Piñata, e noi ce ne stiamo lì ad ondeggiare, mentre guardiamo i nostri intestini fatti papier-mâché uscire ed inondare il pavimento dopo la legnata. E nell'oscillazione si vedono bimbi raccogliere caramelle, sorridere e giocare. É così che ci si sente, appesi ad un filo tra l'innocenza dei bambini e la violenza del colpo. Una roulette russa tra gli schiamazzi di una festa in sottofondo e la tragedia dell'essere umani.
In questa frammentarietà e nel suo ripercorrere la fermentazione dei frutti - il momento giusto o la sua assenza - queste poesie fanno eco ai versi di Lime Tree dei Bright Eyes e ne ripercorrono il sentiero verso una presa di coscienza che: “Mi arriva in frammenti, anche quelli ancora divisi in due/sotto la grondaia di quel vecchio albero di limoni, rimasi ad esaminare i frutti/alcuni erano maturi e alcuni erano marci, mi sentivo nauseato dalla verità/non ci sarà mai un momento più opportuno”.
Il viaggio alla scoperta del vuoto si conclude con un invito che potrebbe quasi sembrare speranzoso, un ritorno al punto di partenza: “Riconosci l’essenziale”. Qui, sembra più una richiesta di fare spazio al necessario che un restare a guardare l’implosione del superfluo. Una specie di riordino alla Marie Kondo, poiché è opportuno disfarsi di tutto ciò che non sprizza gioia, che non rende felici.
È un riconoscimento che porta il rischio di essere mortale, però.
A questo punto dobbiamo immaginarci un uomo, o meglio l’Uomo, inteso come umanità, sul precipizio di un grattacielo, fare un passo di troppo, avere poco equilibrio, incorrere in un calo di pressione, un giramento di testa, mille altre possibilità - o semplicemente saltare nel vuoto. Sia stata una caduta voluta o capitata, a volo terminato sarà possibile riconoscere l’essenziale poiché quel che rimane, una volta tolto tutto è una certa bellezza sconfinata, ricca di incoscienza, silenzi e parole potentissime, ricolme e svuotate, strabordandi; un murales sull’asfalto, nel punto dell’impatto, fatto di sangue, ossa, muscoli, i residui di un corpo nell’incontro con il suolo… resta tutto questo, finché non verrà lavato via.
Il ciclo si chiude per poi riaprirsi, spalancarsi, richiudersi e formare un otto orizzontale, una promessa di infinito.
L’eternità del vuoto, del frantumarsi, del ricomporsi.
Ricostruire per poi tornare in pezzi.
Qualcuno ha dell’Attak?
Qualcuno ha un martello?
Qualcuno ha la pazienza di rincollare tutto?
Nell’ipotetico salto nel vuoto, potrebbe esserci un materasso ad aspettarci. D’altronde alla rottura di un vaso, sopravvivono i fiori.
Intanto saltiamo da quel grattacielo, poco importerà cosa resta dopo. Perché “se nulla è attendibile allora tutto è lecito”. Anche cadere, anche rompersi al suolo, anche volare, anche atterrare. Anche sopravvivere.
È ora di buttarsi.
E rimanere in ascolto dello splash.
Anche il vuoto fa rumore.
Nota critica a cura di Sara Comuzzo
***
le cose che non nomini
e non vedi
non esistono
gli oggetti e le creature
per un tratto
si distinguono
e se poi, figlio, si rivela falso?
benedetto inganno
che sfumando sovraccarica
le nostre intimità
della crepa sanguinante
non dirò la dispersione
ma solo l’occorrenza
di annientarsi nel contagio
della contaminazione
*
l’ondeggiare alla sera degli sguardi
disorienta, nel nostro punteggiare qualche
frase tra i silenzi
e ancora quasi
naufraga il consueto come stai,
cosa hai fatto, qualche innocua
convenzione
come quelle che propagano
ogni giorno tra i serpenti, o almeno
negli ambienti resi immuni dal lavoro
adesso confiniamo quelle formule
viscose, sorridimi qualcosa che disperda
quel contagio
o forse in fondo menti
pur sempre una migliore alternativa
al risuonare tra gli spigoli che assorbono
lo spettro degli eventi
la muta aspirazione a qualche cosa che
mi annienti
*
l’utilità del vaso sta nella sua capienza
in quella sua funzione di comprendere e raccogliere
di farsi intermediario di cose in fondo semplici
è vero può cadere frantumarsi e l’entropia
di certo non consente una ricomposizione
bisogna fare il vuoto valorizzare il nulla
che intorno ha prevalenza
su tutte quelle cose che sembrano impedirlo
e poi ad ogni caduta
ricostruire ancora
per trasportare il nettare
di quell’imperfezione che conserva le fratture
*
il foglio vuoto
dove abbiamo scritto
voglio esistere
diventa la bacheca
senza voce di un
profilo
impreziosire il bianco
di richieste senza
grazia
la penna non può
scrivere nell’aria le
pretese
il cielo accoglie il
fumo della carta
consumata
fuoco di quel
nulla che risolve ogni
capriccio
che ostenta contraffatta
l’epidermide
dell’esserci
*
e quanti sguardi fissano
quel vuoto
irragionevoli
senza rintracciarvi
fondamento e
direzione
se nulla è attendibile
allora tutto è
lecito
faro che deforma il
potenziale degli
erranti
incide nella roccia
il resoconto di un
naufragio
*
un passo ancora per andare dove
non importa attieniti al progetto
ritarda la dissoluzione
dissimula un’architettura
semplifica il processo compiacendo
la parabola della conservazione
nutriti riposa
accumula risorse
conserva la tua specie o quantomeno
fa’ qualcosa che possa avere
senso
sorridi quando istinto e relazioni
si rivelano il riflesso
di neuroni genoma enzimi carne
anche quel sorriso in fondo
è manutenzione
ci penserà il sole ad annientare
il nostro mondo
qualsiasi altro incidente tra le stelle
e la materia
non essere geloso della loro
indifferenza
attieniti al tuo ruolo
che tanto prima o dopo
la terra andrà in frantumi
fortunatamente
***